Francisco
Véjar, il viaggio e la poesia
Por
Cristina Sparagana
Poesia,
N°202. Rivista Mensile Internazionale di Cultura Poetica
Febbraio 2006
Per tracciare un percorso virtuale dell'espressione di Francisco
Véjar, voce tra le più incisive della nuovissima poesia
cilena, bisogna risalire alla fase "di grazia" degli anni
dell'infanzia, anni in cui la passione per le lettere irrompe in forma
quasi parallela con l'amore epifanico per i fundos agresti
di Casablanca, località situata nella campagna a metà
strada tra Santiago e la costa del Pacifico, dove Francisco vive da
bambino, e al tempo stesso per il meridione dal paesaggio selvatico
e piovoso, nell'assiduo
contatto con un habitat che si converte in vaga percezione di una
natura ancora da scoprire, mentre il culto ancestrale del cavallo
e della sua matrice leggendaria assurge quasi a emblema di una tenace
americanità, formulata sull'etimo pagano.
L'infanzia di Francisco Véjar, come lui stesso tiene ad affermare,
si svolge sotto il dato mistraliano del Paese percorso interiormente,
in un quadro di transitorietà fortemente sotteso al tracciato
totemico dell'indiano in cammino verso mete incompiute ma focali,
sospinto da una serie di pulsione che rendono l'amore per la terra
centro magnetico di un nomadismo radicato nel mito dell'eldorado andino.
La terra americana, nella mentalità ispano-meticcia di chi
vi è nato e intende celebrarla, non ha niente a che fare con
il concetto di patria e di nazione nella forma in cui viene concepito
dall'artista europeo. Si ama la propria terra, ma di un amore cieco
e atemporale che ne accoglie cultura e tradizione attraverso l'inerzia
di una creatività quasi letargica. Non a caso il realismo marqueziano
ha rimpiazzato romanticamente il concetto di storia, e la storia del
popolo cileno si trasforma nell'animo del'indio, come nei versi di
Francisco Véjar, in un groviglio onirico di paesaggi e di luoghi
visitati nell'ombra di un viaggio "a occhi chiusi".
Durante la sua vita a Casablanca, e i frequenti periodi di vacanza
nei pressi di Chillán e di Quillón, zona meridionale,
nel contatto affettivo con il padre che verrà in seguito a
identificarsi con paesaggio sureño delle incessanti
piogge forestali. Francisco Véjar, ancora giovanissimo, comincia
a scoprire la lettura e a stabilire quel parallelismo tra vivencia
e immagine poetica su cui poi orienterà tutto il suo credo
e la sua succesiva produzione. "Il mio primo contatto con la
poesia", dice in un'intervista rilasciata nel marzo del 2004
al poeta brasiliano Jiddu Saldanha, e poi tradotta in lingua portoghese
e apparsa sulla rivista "La Estrada", "scaturisce dagli
anni dell'infanzia e dalle immagini del sud del Cile. Mio padre era
originario di Chillán e aveva un fondo rustico a Quillón.
Era li che passavo le vacanze. Andavo a cavallo, assistevo alla trebbiatura,
o me ne stavo semplicemente a contemplare un filare di pioppi agitati
dal vento. In quella casa c'era una biblioteca e si leggeva molto.
Queste impressioni contribuirono a creare in me una speciale sensibilità
tanto paesaggistica quanto poetica".
Il verso di Francisco Véjar nasce dunque, dapprima, come intuizione
e come sentimento, formulato sui moduli simbolici della terra e del
clima, ma sarà solo in seguito, attraverso un'assidua applicazione
disciplinatamente "autodidatta", che esso andrà a
poco a poco articolandosi in immaginazione strutturata sui grandi
esempi della tradizione e diverrà parola definita e retaggio
mentale e culturale, senza però riuscire mai a staccarsi da
un animismo tutto percettivo, vincolato al concetto di natura. Sono
i tempi in cui i giovani poeti stanno riedificando le frontiere del
pionierismo artistico cileno, i tempi dell'ondata esplosiva dei "novissimi"
che, dalla conoscenza di nomi illustri come Jorge Teillier, Efraín
Barquero, Rolando Cárdenas, per menzionarne soltanto alcuni,
danno vita a una nuova tradizione, cresciuta sui parametri del logo
nerudiano, ma dotata di un vocalismo proprio destinato a produrre,
fra i Settanta e i Novanta, una serie di giovani e notevoli nomi.
L'inserimento di Francisco Véjar nella nuova corrente avverrà
non appena il concetto di parola scritta riuscirà a interagire
con la vita e con l'immensa gamma dei suoi impulsi interiori, a sublimare,
insomma, nell'oggettivazione, propria del sentimento rivelato, il
sacrario affettivo e personale.
Avviene in questa fase, come egli stesso afferma, la conversione
dal paesaggio al libri. "Da allora", dice Véjar,
"presi a leggere quasi come un atto automatico, apprendendo il
mestiere di poeta: in particolar modo L'Odissea di Omero, la
Divina Commedia di Dante Alighieri, Il Paradiso Perduto
di Milton, e così pure Residenza in Terra di Pablo Neruda,
Una stagione all'inferno di Rimbaud, I fiore del male
di Baudelaire, oltre a molti altri testi che mi parevano fondamentali.
In seguito mi appassionai alla poesia di Brodsky e Douglas Dunn, che
considero ancora miei maestri".
Decisiva, in questo primo periodo di formazione artistica, oltre
alla convivenza con il padre che lo orientò nel mondo delle
lettere, fu la sua conoscenza di Jorge Teillier, poeta che Francisco
cominciò ad apprezzare negli anni della prima adolescenza divenendone
allievo e cutatore. Intrapreso pertanto su una serie di fattori ambientali
e affettivi, gradatamente il "viaggio camminato" si converte
in un viaggio culturale aderente al tracciato periferico della consultazione
bibliográfica, nel trait d'union tra sentimento e immagine,
tra gli animali muti del paesaggio, d'ascendenza rilkiana, e gli spettri
parlanti degli autori esemplari.
Tutta la sua poetica, da allora, si definisce consapevolmente all'insegna
di un nuovo nomadismo, che lo porta a vagare senza tregua dall'universo
magico e informale dei paesaggi esteriori a quello della stanza dell'artista
tanto caro al pensiero della Woolf, dal mondo agreste dei vasti latifondi
a quello suburbano della grande città, Santiago, capitale mozzafiato,
dove Francisco Véjar si trasferirà nel 1977, all'indomani
della morte del padre, e infine dall'inquieto macrocosmo dei vivi
al raccolto contesto dei defunti che, fedeli ai parametri di Omero,
sorgono dalle tenebre come spiriti guida nell'estenuante tempo quotidiano
("Per me", afferma Francisco, "far poesia è
colloquiare con i morti".
Oltre, però, a restare una costante nella sua percezione della
vita e del dato poetico e creativo, il viaggio rappresenta, nel discorso
di Véjar, il perpetuo trascorrere dell'uomo dal reliquiario
muto ma pur sempre solare della terra, al vissuto del buio cittadino,
inespressivo e destabilizzante, dove questi si muove sulle tracce
di un autoannullamento collettivo lungamente più tragico del
lutto. Esso è infine una fuga verso il mare, il catartico mare
della costa e delle lunghe spiagge luminose, destinato a travolgere
l'ombra della metropoli alla cui soglia franano i valori del transitorio
mondo degli "arrieros", i cavalieri della cordillera.
Véjar ne canta spesso il sapore oceanico, quel suo ritmo estenuante
eppur pacato che da sempre accompagna come in sonno la tormentata
geografia cilena. "Ahora estamos en un tiempo que sentimos escarlata/
Esperando la caída del sol en el mar./ Afuera todo en extraña
calma/ Y nosotros submergidos para siempre/ En lugares infinitos como
la arena de esta playa" ("Ora siamo in un tempo che avvertiamo
scarlatto/ In attesa che il sole cada al mare./ Fuori riposa tutto
in strana quiete/ Noi, per sempre sommersi/ In luoghi sconfinati come
i banchi di sabbia della costa") ("Mirasol"); o ancora:
"Estoy en el mar/ Estoy siempre en el mar/ Y el viento sigue
arrastrando la arena / Sigue arrastrando los sueños/ Como tú
que eres llevada por los muelles / Para ver las nubes de Quintay /Como
relojes deformados por el tiempo" ("Sono nel mare/ Sono
sempre nel mare/ E il vento si trascina via la sabbia/ Si trascina
via i sogni / Come te consegnata alle banchine /Simili ad orologi
deformati dal tempo") ("No quiero más la tormenta").
Quando Véjar afferma che poeti come Juvencio Valle, Pablo
Neruda, Jorge Teillier, Efraín Barquero e Rolando Cárdenas
"non solo erano immersi nel paesaggio piovoso e forestale del
sud del Cile, ma anche nel mondo dell'eredità, il cui centro
è la terra" (intervista a "La Estrada") rivela
quanto forte sia il legame, nella sua concezione di poesia, fra la
letteratura tramandata, radicata nel mito degli auctores e dei patres
familias coloniali, e la potente visceralità del retaggio
tellurico e ambientale, così come il suo approccio con i libri
corrisponda a una sorta di incantesimo sorto dal fluso del vagabondaggio.
Come per altri autori tenacemente prossimi al sud del suo Paese,
la vita di Véjar ha subito una svolta traumatica dalla fase
dorata dell'infanzia, trascorsa in un ambiente privo di coordinate
intellettuali oltre che radicata sull'impronta del bestiario pagano
e di uno stegolato feticismo, a quella degli anni "seri"
dell'età matura, vincolati al deserto edificante della metropoli
di formazione. Nel suo caso specifico, la perdita del padre, che è
venuta a coincidere, come si è detto prima, con il trasferimento
nella grande città, ha avuto certo un peso di rilievo nel momento
creativo, riformulandone la produzione su un cifrario elegiaco che
si concentra specificamente nei nostalgici versi di Fluvial, la sua
prima raccolta di poesie ampiamente ispirata dal ricordo di lui e
del quadro sfumato del paesaggio. Così la lirica che apre il
volume: "Volver / a delinear los lagos. / Volver / a los arcoiris
/ tremolados en otros arcoiris./ Volver / a mis fluviales fluviales
alboradas" ("Ritornare / a tracciare i confini dei laghi.
/ Ritornare / agli arcobaleni/ sfumati in altri arcobaleni. / Ritornare
/ ai fluviali miei fluviali risvegli").
Santiago, desolata capitale dove il bagaglio onirico sviluppatosi
"al centro della terra" viene comunque indotto a sottostare
a una precisa gamma di valori altamente eruditi, vive gratificandosi
da un lato della sua vicinanza con il mare e dall'altro dei fervidi
contatti con gli intellettuali che vi abitano. Verso questo epicentro
del pensiero, terrificante, sovrastrutturale, eppure fortemente vincolato
ai capisaldi dell'educazione e della disciplina autodidatta, Véjar
nutrirà sempre, come si è detto, un sentimento ambiguo
di morbosa attrazione e di rifiuto, che informerà gran parte
dei suoi scritti. Bar e hotel di passaggio, pub legati alle insegne
postmoderne di uno "yankismo" tutto giovanile, affollati
locali dove il suono del jazz, tanto caro alla musa vejariana, viene
a fermare, come per magia, l'atemporale flusso della vita notturna,
diventano gli emblemi di un eterno trascorrere che va poco per volta
rimpiazzando, nelle poesie di ambiente cittadino, il nomadismo di
matrice andina. A conferma di ciò v'è da notare che
alcune liriche di País Insomnio sono tenebrosi cenotafi
sparsi sui sepolcreti suburbani dell'odierna Santiago. "La sensación
de escindirse en los subterráneos del Metro/ o en el autobús
que se precipita a lo ajeno/ al escuchar la música de pasado
mañana/ o la sensación de enmudecer ante desconocidos/
que caminan con paso áspero a la nada" ("Fissionarsi
nel buio della Metro/ o in un tram che si slancia nell'ignoto/ ascoltando
la musica di un trascorso domani/ o ammutolire al paso degli estranei
/ crudelmente in cammino verso il nulla") ("Otra mirada
del Metro).
Al di là del retaggio contadino e del logo oceanico c'è,
nei versi di Véjar, un'altra confortante dimensione che può
arginare misteriosamente il tempo della vita suburbana, ed è
la dimensione della morte, non la morte dei vivi fiaccamente esiliati
da se stessi, costretti al movimento rotatorio di un tempo asfittico
e abitudinario strutturato su moduli infernali d'ascendenza dantesca,
ma la morte affettiva dei cimiteri accesi dal rimpianto, dove il ricordo
di chi abbiamo amato si inserisce nel nostro quotidiano, solarizzando
i demoni del nulla.
Abbiamo visto come la poesia sia per Francisco Véjar il risultato
del dialogare con le persone morte e in quale forma la perdita del
padre abbia sospinto verso l'elegia il bagaglio ancestrale dell'infanzia,
modificandone l'evoluzione. L'incessante colloquio coi defunti sorge
così come una partitura sull'assenza di note dell'insonnia
dei vivi, sullo sgomento della vanità delle lunghe giornate
senza orario, sempre troppo lontane dal tramonto, e dai fari intravisti
dalla costa.
"Visito el cementerio: / allí duerme mi padre/ sobre
polvo y más polvo/ donde no hay más que el silencio
sordo de otras voces, / lápidas casi borradas por las tempestades:/
[...] Un día espíritu y carne / fueron fuertes,/ vagaban
sin prisa,/ releyendo en el aire las señales de la vida"
("Visito il cimitero: / là riposa mio padre/ sopra polvere
e polvere/ dove nulla rimane oltre il silenzio sordo di altre voci,
/ lapidi quasi sfatte ai temporali: / [...] Carne e spirito un giorno/
erano forti,/ vagavano indolenti,/ rileggendo nell'aria i segni della
vita") ("Allí duerme mi padre").
Allí duerme mi padre
Visito el cementerio:
allí duerme mi padre
sobre polvo y más polvo
donde no hay más que el silencio sordo de otras voces,
lápidas casi borradas por las tempestades:
débiles huellas sobre el mármol.
El viento desordena el entorno.
Camino sobre pétalos resecos
que se unen a la tierra,
sobre pedazos de labios
que se juntaban para amarse.
Pero no hay respuesta.
Un día espíritu y carne
fueron fuertes,
vagaban sin prisa,
releyendo en el aire las señales de la vida.
Estoy de pie en este mundo,
mirando como muere la tarde,
sintiendo la enarbolada sensación de contener
............ en un segundo otros
ecos.
Hay pasos que oyen,
hay ojos disueltos que observan,
también el destello de la nada.
Allí duerme mi padre
frío y delicado como la nieve.
Là riposa mio padre
Visito il cimitero:
là riposa mio padre
sopra polvere e polvere
dove nulla rimane oltre il silenzio sordo di altre voci,
lapidi quasi sfatte ai temporali:
lievi impronte sul marmo.
Tutt'intorno il disordine del vento.
Muovo i passi fra petali avvizziti
ricongiunti alla terra,
su frammenti di labbra
conserte per amarsi.
Ma non odo risposta.
Carne e spirito un giorno
erano forti,
vagavano indolenti,
rileggendo nell'aria i segni della vita.
Sto in piedi in questo mondo,
contemplando il declino della sera
inalberandomi alla sensazione di contenere
altri echi in un istante.
Vi son passi che ascoltano,
vi son occhi che osservano dissolti,
e così pure il luccichio del nulla.
Là riposa mio padre
gelido e delicato come neve.
*
Rostros que ya no están vuelven a aparecer
Rostros que ya no están vuelven a aparecer
como la esperanza de cambiar el curso de las cosas.
Tú estás aquí,
recorriendo escaparates repletos de libros
para entrar una vez más a la realidad.
Hasta una hoja desprendida de un árbol
puede señalar tu estadía en la tierra,
insondable como las horas
detenidas por un instante en el espacio de una ventana.
Tú estás aquí
vagabundeando libre entre los objetos del hogar
y conversas con el que fuiste para volver a ser,
dejando atrás fiestas y amigos,
calles reflejadas en el color púrpura del atardecer.
La respiración es breve
-exhalación y despojamiento-
Quisieras ver la luz de los que han partido
justo cuando cierras los ojos en otro despertar.
Días de puertas adentro
sin más que una canción y un manojo de llaves
invisibles.
Volti svaniti affiorano di nuovo
Volti svaniti affiorano di nuovo
come la speranza di cambiare il corso delle cose.
Tu sei qui,
fra scaffali che grondano di libri
per raggiungere ancora la realtà.
Una foglia spiccata da una pianta
può tracciare il tuo passo sulla terra
inesplorabile come le ore
cristallizzate dentro una finestra.
Tu sei qui,
vagabondo fra oggetti familiari
e conversi con quello che già fosti per ritornare ad
esserlo,
lasciandoti alle spalle feste e amici,
strade tinte di porpora nel riflesso del giorno che declina.
È breve il tuo respiro
-esalazione o scempio-
Cerchi la luce di chi ci ha lasciato
nel socchiudere gli occhi in altra veglia.
Giorni trascorsi chiusi in un interno
con in mano soltanto una canzone ed un mazzo di chiavi inesistenti.
*
Lo que te ofrezco
Nada de lo que te ofrezco
es imposible:
un cielo surcado de pájaros, caricias como nubes
-los inimitables latidos de tu corazón-
Todo es posible
sin siquiera recurrir a la fantasía.
No somos más que las huellas plateadas
que dejan los caracoles en los lugares
visitados en sueños.
Ya nadie preguntará en qué día
ni en qué mes estamos.
Una cuña de luz entrando en el tiempo
es lo que debemos ahorrar.
La ilusión de estar el uno con el otro.
Nada de lo que te ofrezco
puede ser imposible:
pensamientos que vuelan como pájaros,
un puente entre ambos mundos.
De Canciones imposibles, Ediciones Noreste,
Santiago 1998.
Ciò che ti offro
Nulla di ciò che t'offro
è irraggiungibile:
cieli e solchi d'uccelli, carezze come nubi
-il tuo cuore che batte inimitabile-
Tutto questo è possibile
senza bisogno di fantasticare.
Altro non siamo che argentate tracce
lasciate dalle chiocciole nei luoghi
visitati nei sogni.
E mai nessuno chiederà in che giorno
o in che mese viviamo.
Un lampo che s'incunea dentro il tempo
è quanto ci rimane da salvare.
L'illusione di stare l'un con l'altro.
Nulla di ciò che t'offro
può sembrare impossibile:
pensieri in volo simili ad uccelli,
un ponte teso fra i nostri due mondi.
Da Canciones imposibles, Ediciones Noreste,
Santiago 1998.
* * *